Presentazione libro
“GILBERTO TONTI,
MEDICO E ROMANZIERE DI TALENTO”
Riguardo ciò che è stato relazionato dal sottoscritto in questi quattro anni, a cominciare dal 24 aprile 2004 con la prima iniziativa “Gilberto Tonti, medico e romanziere di talento”, è stato raccolto – su proposta del senatore Lorenzo Cappelli – in questo libro che documenta, per sommi capi, le fasi della sua esistenza segnata, tra le altre cose, da continui interrogativi sul senso della vita e sul “dopo”.
Di intelligenza acuta, assolutamente libera da ogni conformismo, il dottor Tonti, nato esattamente 82 anni fa, il 9 maggio 1926, esercitò la professione di medico per 47 anni (si era laureato in medicina e chirurgia a 23 anni, riportando forse un record nazionale, come quello di iscriversi all’età di 75 anni al corso di laurea in Filosofia), prima ad Alfero e poi a Mercato Saraceno.
Ora passiamo ad un altro capitolo che il dottor Tonti sigla così:
B. O. e nel quale si può cogliere, come e in quali condizioni, svolgevano
a quei tempi il servizio di condotta medica. Durante l'ultimo anno di lavoro
nella zona di Alfero gli capitò di curare un paziente, appena quarantenne,
per una delle malattie più crudeli e dolorose che conosceva e che raramente,
a quel tempo, aveva avuto l'occasione di vedere: “un tumore polmonare,
ricordo ancora che si trattava di un microcitoma, rapidamente invasivo e accompagnato
da una "mitragliata" di metastasi allo scheletro”.
“Da qualche mese – ricorda Tonti - faceva il pendolare fra l'ospedale
e la casa ma, ultimamente, aveva deciso di rifiutare le proposte di ricovero
perché ne aveva compresa la totale mancanza di utilità e perché
la sua abitazione era troppo lontana dalla Strada Provinciale e ogni volta
c'era il problema di arrivare all'ambulanza trasportandolo con un carro da
fieno: credo che buona parte delle tante fratture costali e vertebrali che
lo tormentavano senza posa, fosse imputabile agli urti che riportava durante
quei trasferimenti.
Con quella famiglia avevo stabilito un rapporto amichevole e simpatico dal
tempo dell'ultima gravidanza di sua moglie: alle primissime doglie il marito,
prudentemente, era venuto a cercarmi perché la mancanza di telefono
e di strada consigliava di anticipare il più possibile l'intervento
del medico, o della levatrice quando c'era.
Ma quella volta la chiamata era stata un pochino prematura, la dilatazione
non fu completa prima di due giorni e per due notti, in attesa del periodo
espulsivo, mi coricai accanto alla donna mentre il marito, per la mancanza
di un altro letto, si era sistemato alla meglio nella mangiatoia della stalla.
Il materasso era solo un giaciglio di foglie di granoturco, rumorose e ondeggianti,
e la donna cercava di trattenersi il più possibile ma, qualche volta,
doveva pure lamentarsi nel momento delle doglie più forti.
Tuttavia ricordo di avere riposato a sufficienza perché, a quel tempo,
per mia fortuna riuscivo a dormire in qualsiasi momento e dovunque mi trovassi,
magari all'aperto e coricato sulla gualdrappa della mia cavalla, incurante
di ogni rischio e disagio.
Quando, a cose fatte, me ne andai da quella casa le feci notare che sicuramente
lei era l'unica donna nei dintorni che poteva vantarsi, o rammaricarsi, di
avermi ospitato nel suo letto solo per dormire.
Da quella battuta, facile e felice, era nata e si era mantenuta la confidenza
particolare che avevo con quella famiglia: a conti fatti il marito aveva dormito
nella mangiatoia per lasciarmi il posto accanto a sua moglie, e non è
che mi sia capitato tutti i giorni di coricarmi accanto a una donna sotto
l'occhio, non solo amichevole, ma riconoscente e premuroso di suo marito.
Quando, qualche anno dopo, feci ritorno in quella casa stava arrivandoci,
a lunghi passi, la morte.
Ogni due o tre giorni gli portavo alcune fiale di morfina: a quel tempo non
c'era molto da scegliere fra gli analgesici, e parlando con lui toccavo con
mano quella terribile paura che ti priva di ogni interesse verso qualsiasi
cosa che non sia l'imminenza della tua morte e, angosciosamente, concentra
ogni tuo pensiero su quell'inesorabile mostro che ti divora da dentro e, ancor
peggio, su quello che ti attende alla fine di tutto.
Un giorno mi chiese di liberarlo da quella pena con qualche fiala di morfina
in più e mi confidò che sua moglie era d'accordo con la sua
decisione. Quando rifiutai, com'era obbligatorio e normale per quegli anni,
mi apparve rassegnato e abbastanza tranquillo: sicuramente lo era più
di me che stavo interiormente dibattendo il problema di come comportarmi davanti
a una richiesta come quella che ricevevo per la prima volta.
Ero combattuto fra il desiderio di assecondarlo e quella specie di sudditanza,
che allora sentivo sicuramente più di oggi, nei confronti di quelle
norme così opportune per legittimare in certi momenti alcune decisioni
molto spesso disumane che derivano, invece, da pigrizia mentale o da colpevole
indifferenza.
Quella volta, e in altre occasioni, ho sinceramente invidiato alcuni fortunati
colleghi che neppure si pongono il problema, sostenuti come sono da una Fede
per la quale solo Dio può concedere e togliere la vita: ma questi sono
privilegiati anche per altri motivi.
Qualche giorno dopo mi rivolse la stessa richiesta, ottenendo purtroppo la
medesima risposta, probabilmente con parole che lo lasciarono senza speranza.
Stavo conversando da qualche minuto con sua moglie prima di risalire a cavallo
quando, dall'interno della casa, arrivò il rumore di una fucilata:
avevo capito subito e obbligai la donna a restarsene fuori e allontanarsi
con i bambini che, nel frattempo, erano arrivati di corsa.
Si era ucciso sparandosi in bocca e quando chiusi a chiave la porta della
sua stanza, adducendo come pretesto l'ispezione dei carabinieri, lo feci per
evitare a quella povera donna lo spettacolo di quelle pareti e di quel pavimento.
Sono passati più o meno quarant'anni da quel giorno e ancora non mi
sono perdonato: per la paura di complicazioni ho respinto una richiesta di
aiuto disperatamente lucida e motivata e ho negato a qualcuno, che si fidava
totalmente di me, l’estremo conforto di morire nel sonno della morfina:
a difesa della mia tranquillità l’ho costretto al “peccato
mortale” del suicidio e alla sofferenza atroce di prendere da solo quella
decisione.
Peccato per peccato sarebbe stato infinitamente più giusto e generoso
da parte mia commettere, a suo vantaggio, quello di “omicidio".
Potevo farlo tranquillamente senza il timore di espormi a problemi medico-legali,
che avrei potuto facilmente evitare, o al giudizio divino del quale sinceramente,
m'importava e tuttora mi importa meno di niente: ho preferito esporre quella
donna con i suoi figli al disagio delle indagini e al veleno dei commenti
e quell'infelice, che ci credeva, all’angoscia di presentarsi da peccatore
al cospetto di Dio”.
Riguardo questo aspetto di stretta attualità che investe il tema dibattuto
dell’eutanasia, il dottor Tonti probabilmente rammentava le parole che,
all’inizio della carriera, un vecchio collega medico gli disse:”Ricordati
che dovrai - anche in cose di minore importanza come ascoltare un cuore o
palpare una milza - usare la tua competenza non per dominare e decidere dall’alto,
ma con umiltà e consapevole devozione verso chiunque abbia bisogno
di te”.
Un altro episodio riguarda l’amico e collega dott. Pier Luigi “Ciccio”
Rossetti.
Di lui evidenziava le difficoltà nel suo rapporto con le donne: “aveva
– scrisse Tonti - al tempo stesso una fame insaziabile di femmina e
l’insuperabile paura di avvicinare qualsiasi donna che non fosse a pagamento
e comportasse una qualche iniziativa”.
“Sicuramente nel suo comportamento – riporta il nostro medico
romanziere - che a volte mi lasciava preoccupato e perplesso, entravano in
gioco fattori diversi come la sua timidezza e la malinconia di fondo che traspariva
dai lunghi silenzi. Potrei aggiungere, forse, la sua convinzione di non essere
a sufficienza gradevole e disinvolto e l'insofferenza verso un certo tipo
di conversazione e di argomenti che, d’altra parte, non è possibile
evitare quando si frequenta assiduamente una donna o con lei si divide una
parte della vita.
C'era qualcosa di più alla base di tutto questo: la coscienza - che
praticamente era essere nata con lui perché non l'ho mai conosciuto
diverso - della sostanziale precarietà di tutto e l'insormontabile
resistenza che opponeva a qualsiasi tentativo di affacciarsi alla profondità
dei suoi pensieri e alle contraddizioni della sua vita.
Solo una volta lo vidi sul punto di cedere al fascino di una donna e alla
prospettiva di vita meno solitaria e, probabilmente, meno infelice: ma l'imperizia
nel condurre sto genere di rapporti, per i quali non aveva alcuna esperienza
precedente, e la cattiva sorte che l'accompagnava come un'ombra aggiuntiva,
provocarono l’affondamento di quella fragile imbarcazione ancora prima
che uscisse dal porto.
Durante l'estate aveva conosciuto sulla spiaggia di Cesenatico una giovane
parrucchiera di Bibbiena «bionda e spirituale come una figura di Botticelli,
assorta e misteriosa come la Gioconda ».
Durante le poche settimane delle sue vacanze l'aveva quotidianamente corteggiata,
o per lo meno era questo che lui pensava, più che altro rimanendo seduto
per intere giornate sulla sabbia a poca distanza dal suo ombrellone e fissandola
di continuo come fosse un maniaco…
Dopo qualche giorno di appostamenti le si era avvicinato, senza presentarsi,
né tanto meno qualificarsi, come logicamente avrebbe dovuto per cominciare
quella partita a carte scoperte, e l'aveva invitata a una passeggiata lungo
la spiaggia: ne aveva ricevuto, come era del resto prevedibile e naturale,
un rifiuto deciso ma cortese ed era proprio su questa cortesia formale che
“Ciccio” – Pier Luigi aveva liberato l'inesperto puledro
delle sue fantasie.
Qualche giorno prima del suo ritorno a casa quella giovane donna aveva ricordato,
probabilmente senza motivo, una piccola cittadina toscana, Bibbiena: e questa
"confidenza" era divenuta per Ciccio l'inequivocabile segno dell'interesse
che aveva suscitato in quella donna.
Da quel momento aveva duramente combattuto contro la tentazione di rivederla:
alla fine aveva ceduto e si era messo in cammino deciso a ritrovarla, con
la sola indicazione di quel nome [Bibbiena].
Una sera, verso la metà di dicembre, si fermò a pernottare a
casa mia: da Cesena aveva raggiunto San Piero in Bagno con mezzi di fortuna
e di lì aveva camminato fino ad Alfero, dove a quel tempo abitavo.
Non aveva infatti la macchina, non poteva usare la Vespa perché le
strade erano ricoperte di ghiaccio e di neve e neppure servirsi della SITA
perché non sopportava le ondulazioni e l'odore della nafta.
Dopo cena mi mise al corrente del suo progetto: riprendere il cammino prima
che facesse giorno e, passando per i Mandrioli, arrivare a Bibbiena nel pomeriggio.
Era un formidabile camminatore e quindi il problema non era quello di arrivare
ma, piuttosto, l'accoglienza che avrebbe ricevuto.
Aveva la barba lunga di qualche giorno, quella barba nera da “rom”
che subito ti insospettisce e ti da l'impressione dell'incuria e del poco
pulito, ed era vestito come soltanto lui riusciva a conciarsi in certi momenti:
sopra un maglione di fattura casalinga e un paio di pantaloni di velluto a
coste dalla piega indeformabile e resistente come un calamaro pescato da due
giorni, indossava un cappotto militare acquistato, o ricevuto in regalo, molti
anni prima da un piccolo commerciante di olio che lo usava per coprire il
cofano del camioncino durante le notti invernali. Il copricapo non era da
meno: si trattava di una specie di colbacco confezionato da sua madre con
lana verde e marrone e così largo, per la piccola testa che aveva,
da coprire largamente le orecchie e buona parte del collo.
Gli scarponi dalle suole chiodate, più o meno paragonabili a quelli
leggendari di don Gino [parroco di Alfero], erano sicuramente arrivati in
Europa molti anni prima col piano Marshall; i guanti erano di lana grigia,
senza le dita, con la sola appendice, a forma di piccolo pseudopode floscio
e consumato, destinata a contenere il pollice.
Cercai di convincerlo a rimandare il viaggio di qualche giorno, facendosi
per lo meno precedere da un biglietto, possibilmente su carta intestata.
Gli proposi di accompagnarlo in macchina e di indossare uno qualunque dei
miei vestiti che, nonostante fossero abbondanti per la sua statura, gli avrebbero
comunque garantito un aspetto migliore.
Non mi ascoltò, come del resto mi aspettavo, perché stava vivendo
il suo primo momento di esaltazione amorosa e tutto gli appariva possibile
e dovuto: accettò con fatica di radersi col mio rasoio, ma solo perché
la barba cominciava a dargli fastidio.
La mattina dopo trovai sulla tavola un biglietto di saluti e di ringraziamento
per le provviste che aveva prelevato dal frigorifero: gli augurai mentalmente
buon viaggio e buona fortuna, ma non ebbe né l'una né l'altra.
Superato il valico dei Mandrioli fu investito da una bufera di vento e di
neve che lo costrinse a camminare a testa bassa fino al bivio di Serravalle,
nonostante la strada fosse naturalmente tutta in discesa.
Sulle ali della speranza, forse dell'amore, e sulle gambe della sua straordinaria
resistenza alla fatica, arrivò a Bibbiena un paio di ore dopo il tramonto.
Il negozio della parrucchiera era situato lungo la via principale del paese
e, una volta individuata la vetrina, attese l'ora della chiusura seduto a
poca distanza sugli scalini di una casa.
Un'ora dopo, mentre la ragazza stava chiudendo la porta, Ciccio trovò
finalmente il coraggio di avvicinarla e, senza dire una sola parola, la toccò
leggermente sulla spalla: ma lei, urlando di sgomento e di raccapriccio di
fronte a quella figura tibetana, trovò la forza di rientrare nel negozio
e, mentre Ciccio al di la della vetrina tentava di rassicurarla, chiamò
per telefono i carabinieri.
Quando arrivò la pattuglia, nel giro di pochi minuti, trovò
lo yeti ancora davanti a quella vetrina che cercava inutilmente di aprire:
dopo averlo identificato negli uffici della caserma lo accompagnarono con
una “pantera” alla stazione ferroviaria di Arezzo e rimasero con
lui sulla pensilina fino a quando non lo videro salire sul primo treno diretto
a Bologna.
I sogni non sempre finiscono all'alba, sull'erba profumata
di un prato fiorito ma, qualche volta, anche durante le ore della notte attorno
ai binari di una ferrovia”.
«I ricordi sono come foglie ingiallite, a malapena galleggianti sull’acqua
stagnante del nostro passato – leggo da “E se fosse tutto vero?”
un’altra pubblicazione inedita di Gilberto Tonti - di quella parte di
vita sempre più lunga che, inesorabilmente ci lasciamo alle spalle.
Negli ultimi anni avrebbe fortemente voluto… «riascoltare, per
qualche istante, le voci rassicuranti e pacate che riempivano la casa di mio
padre, alternandosi a lunghi momenti di opportuno silenzio. Il senso del tempo
che vorticosamente mi scivola dietro le spalle come la scia ribollente di
una nave, io la provo ogni volta che ricordo mio padre…una figura discreta,
malinconica e precocemente invecchiata nel suo pigiama a righe…».
Tonti ricorda in modo struggente anche sua madre Noemi alla quale era molto
legato:”…morì, fra le 5 e le 6 pomeridiane di una brevissima
giornata di dicembre, aveva gli occhi semichiusi rivolti verso la luce di
un lampadario, quasi volesse esorcizzare per l'ultima volta il buio che si
vedeva fuori dalla finestra, e quello interminabile che stava arrivando. Ho
compreso mia madre molto di più di quanto comportasse la mia condizione
di figlio perché, da quando ricordo, ho sempre coltivato dentro di
me, con alterni momenti di fiducia e di sconforto, la speranza di trovare
al di là della morte una qualsiasi forma di vita, sia pure infernale
e punitiva, ma purché si tratti di vita”. Di lei rammenta pure
i benevoli rimproveri che gli indirizzava riguardo la sua non accortezza nelle
spese che faceva, e nelle decisioni che prendeva: “ma lei capiva –
accenna sempre in “E se fosse tutto vero?” – per prima quanto
fosse difficile pretendere l’oculatezza e la moderazione da uno come
me, che aveva la voracità di una locusta alla ricerca di raccolti da
saccheggiare, e l’imprevedibile volo di una farfalla cavolaia fra l’infinita
varietà di corolle profumate e zuccherine”. “L’uniformità
di comportamento – sosteneva il Nostro - è una caratteristica
dell’asino che percorrendo mille volte la mulattiera da Mazzi a Corneto
cammina sempre sulle medesime pietre consumandole a furia di zoccoli e di
monotonia: perfino il bue fa meglio di lui”.
Di entrambi i genitori racconta di un sogno – forse immaginario –
del quale distingue bene i contorni e le espressioni:”…mio padre
aveva il suo solito volto severo e bonario; lei, mia madre mi appariva rassegnata
e come delusa, forse da me e dalle vicende della mia vita: credo si aspettasse
molto di più e molto di meglio”.
Vi è un altro ricordo importante che riguarda l’incontro avvenuto
nel 1956-57 con Padre Pio durante una vacanza sul Gargano nell’ambito
di una battuta di caccia. Salvatore, un parente di Padre Pio, proprietario
della masseria dove Tonti alloggiava, gli prenotò in tempo record un
colloquio: “Erano esattamente le sei – scrive nei suoi “Appunti
di viaggio” – quando un monaco bussò alla porta di Padre
Pio per annunciare la mia visita: stava seduto di fronte ad un tavolo di legno,
si girò verso di me senza salutarmi e con evidente fatica; il corpo
era massiccio o forse appesantito dai lunghi anni di immobilità forzata,
la mano sinistra che teneva appoggiata sulle ginocchia tremava visibilmente,
nonostante cercasse di nasconderla sotto la piega del saio… mi guardava
con occhi sporgenti, quasi bovini, privi di ammiccamenti, ma indagatori e
penetranti, francamente inattesi per un viso edematoso e giallastro, rigido
nella mimica e pesante nel profilo, che tradiva quasi certamente l’uso
prolungato del cortisone. Dopo un po’ cominciò a parlare adagio:
“Siete voi quello che vive in casa di Salvatore”. “Sono
io – risposi - e mi dispiace avervi disturbato a quest’ora”.
E Padre Pio: “Per me tutte le ore vanno bene perché da molto
tempo non riesco a dormire…” Poi, sempre Padre Pio, all’improvviso
passò dal Voi al Tu: “io lo so per che cosa sei venuto, lo so
da quando Salvatore mi ha parlato di te e poco fa, appena ti ho visto entrare
ho subito capito che seminare nella tua mente sarebbe come sciupare chicchi
di grano buono sul terreno arido e improduttivo delle nostre Murge. Tu questa
volta sei venuto solo per indagare e giudicare un mondo che non ti riesce
di capire: quando, a furia di vita, avrai liberata la tua testa dall’arroganza
della ragione e della cultura che presumi di avere, in quel momento, se ancora
ti farà piacere o sentirai di averne bisogno, potrai nuovamente bussare
a questa porta”. Allungò la mano verso il tavolino e mi consegnò
una busta facendomi intendere che la conversazione era finita. Mi fermò
sulla porta mentre stavo uscendo nel corridoio e disse: “Tu stai consumando
troppo voracemente la tua vita, di questo passo arriverai alla fine della
tua corsa senza trovare il tempo per capire e prepararti a ciò che
ti aspetta dopo l’ultima stazione”. Prima di allontanarmi dal
monastero mi fermai davanti alla chiesa pensando che la busta aperta com’era
fosse l’invito per un’offerta, ma conteneva solo una specie di
“santino” con poche parole sul retro stampate da qualche tipografia
artigianale: “…ricorda che la misericordia di Dio è infinitamente
più grande della tua malizia” e in fondo al cartoncino Padre
Pio in persona aveva aggiunto una breve appendice che non intendo rivelare.
Quell’episodio lo turbò notevolmente al punto di chiedersi cosa
volesse suggerirgli Francesco Forgione da Pietrelcina con quell’affermazione
“Ricorda che la misericordia di Dio è più grande della
tua malizia”: di avere Fede o di avere fiducia? Di credere o di sperare?
Riguardo questo, una lettera a lui indirizzata in tempi successivi da un amico,
riporta: “quando avrai navigato ancora per molti anni arriverai a capire
che per forza dev’esserci qualcuno al timone della barca, diversamente
avresti naufragato molto prima…non lasciare che il sole tramonti sulla
tua mancanza di fede…”. E ancora, sulle parole di Gregorio di
Narett, l’anacoreta armeno: “Tu sei l’immensità ma
senza di te non c’è misura…gloria tremenda, nome irraggiungibile,
invito alla grandezza, impenetrabile essenza di tutte le cose, lontananza
inaccessibile e vicinanza insuperabile”. “Se una presenza capace
di suggerire pensieri come questi – si chiedeva il medico – non
è Dio, allora cos’è? E dove si nasconde? E come potremo
superare l’invalicabile vicinanza che ancora ci separa da Lui?”.
Attraverso i suoi scritti Gilberto Tonti ha configurato le stagioni, gli umori
e i sapori della sua esistenza attraverso una coinvolgente passeggiata fra
romanzi, saggi, riflessioni, vicende e personaggi che, in maniera significativa
hanno interferito con lui e il suo modo di pensare. Grazie a questi oggi possiamo
rintracciare l’essenza di vita di questo personaggio il quale affermò:
«Salvo ripensamenti – sempre possibili quando si scava fra le
pieghe di un’esistenza oramai troppo lunga e piena di avvenimenti –
credo sia arrivato il momento di affidare il lavoro alla perizia di qualcuno
che lo stampi e alla benevolenza di qualcuno che lo legga».
Probabilmente aveva visto bene nel lontano 1959 l'editore milanese Giangiacomo
Feltrinelli, al punto di proporgli un'offerta molto allettante per l'epoca
(10 milioni più il 18% sull'incasso lordo per le prime 50 mila copie)
per la pubblicazione del suo primo libro, intitolato “La beccaccia”
ma Gilberto, conformemente al suo stile - talvolta refrattario - non diede
peso più di tanto alla cosa e declinò.
Cekhov suggeriva di scrivere tutto per poi cancellare quasi tutto; Tonti ha
scritto tutto ma probabilmente non ha cancellato nulla in questo suo narrare,
in modo brillante l’esistenza nella quale, con straordinaria sensibilità
e finezza, è riuscito a cogliere aspetti talora impercettibili con
stile pulito, conciso ma ricco e trascinante al tempo stesso.
Romanzi di grande spessore a parte, egli parla spesso della sua esistenza,
intensa e sofferta, lasciando intravedere, fra le tante sollecitazioni e suggestioni
culturali e filosofiche mosse che «…coltivare un pregiudizio significa
entrare in una specie di gabbia mentale dove non c’è spazio per
la verifica della verità e per una conoscenza meno limitata delle cose
e delle persone».
Nei suoi testi, i vari temi evidenziati e interpretati, nonché le storie in varie parti romanzate o realmente vissute, vengono talvolta “mascherati” e filtrati attraverso situazioni e personaggi dai nomi inventati, ma inseriti in contesti veritieri, nel quale il Nostro è stato protagonista o spettatore; oppure con descrizioni e commenti esposti in terza persona che riguardano, in ogni caso, lo scrittore stesso.
Per filosofo Martin Heidegger il linguaggio permette all’Essere di svelarsi: le parole ci fondano, ci giustificano, ci certificano che siamo su questa Terra e lo scrivere diventa un bisogno necessario ed inestirpabile che permette di definire uno scrittore (e il suo stile) nella sua essenza magnetica e insondata.
E tramite la scrittura Gilberto Tonti è riuscito ad esprimere se stesso, l’essenza dei suoi ricordi, la macerata inquietudine rivolta alla sua concezione di vita e al “dopo”, nonché la verità dei suoi sentimenti e delle numerose donne che gli sono piaciute, nella consapevolezza - almeno così penso - che per conquistare un’altezza morale e scendere dai trampoli del perbenismo o dell’ipocrisia, occorra scrivere e pubblicare tutto di sé stessi; solo in questo modo si può affrontare la vita.
Ma come ad un grande scrittore russo, Lev Tolstoi, anche al nostro medico - romanziere mancava una cosa fondamentale per essere felice: comprendere il senso della vita e della sua fine.
Nella poetica di Tonti il motivo ricorrente è la morte: la morte in sé e l’amore inteso come cupio solvendi, cioè ansia di dissoluzione. Come don Giovanni, che in tutte le donne cerca l’Assoluto, Tonti nell’amore cerca la morte che è il punto a cui tende la sua sehnsucht, termine tedesco che indica il desiderio di trascendere, cioè di superare la propria realtà materiale per raggiungere un livello più alto: liberarsi della propria fisicità per entrare in contatto con l’infinito, con l’assoluto.
Ciò giustifica la profonda suggestione che opera in lui la natura
e, quindi, come Schiller (poeta del romanticismo tedesco) anche Tonti avrebbe
potuto scrivere alla fine della sua marcia di avvicinamento verso i confini
estremi dell’esistenza: “La luna, bassa ad illuminare la foresta,
la grande ombra del lupo sulla neve e il vento forte, che sospira e mi chiama…”.
Edoardo Maurizio Turci