MERCATO SARACENO 13 MAGGIO 2006
ASSEGNAZIONE "PREMIO GILBERTO TONTI"

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L' 8 febbraio 2004 concluse il suo cammino terreno (o "marcia di avvicinamento verso i confini estremi dell'esistenza" - come scrisse) Gilberto Tonti, noto e apprezzato medico della nostra Valle del Savio, nella quale ha sempre svolto la sua professione medica con competenza e intelligenza. Ma grazie anche alle sue sconfinate doti intellettuali ha potuto sfornare (in totale silenzio) "perle" letterarie, romanzi dallo spessore culturale, storico e filosofico di livello eccezionale che lo hanno portato a vincere anche premi nazionali prestigiosi, come il "Mario Tobino"; "Il premio Anfiosso" per tre anni consecutivi;
"La serpe d'oro", più altri apprezzamenti in campo letterario.
Le sue opere inedite messe a disposizione della moglie, signora Lella, sono: "Appunti di viaggio" "Tomar", "La Sibilla e Pilato", "La critica della ragion perduta", "E se fosse tutto vero?", "Il francescano e Francesca", "Le gole di Orfeo", "Ipazia, la Dikè (che in greco antico significa Giustizia) Alessandrina", "Rakmara" e "L'ultima volta a Cracovia" che è anche l'ultimo della serie.
In questi scritti emergono gli aspetti meno conosciuti del dottor Tonti, che potrebbero non corrispondere - o corrispondere in parte - a quell' atteggiamento gioviale, burlesco, anticonformista, anche."sboccacciato" (per usare un termine comune) messo in evidenza con i suoi comportamenti - anche di fortunato seduttore come veniva considerato dagli altri - che in vari casi sono entrati a far parte, addirittura, della aneddotica popolare di Mercato e anche di Alfero.

Premio Gilberto Tonti

Aveva senz'altro una personalità poliedrica, eccezionale, nel senso della persona non comune, ricca di talento che gli permetteva di comprendere l'interiorità delle persone e per questo di giocare anche su timbri leggeri perchè in realtà era profondo, e questo gli consentiva di muoversi spesso al di sopra delle righe.
E in tale atteggiamento non sempre veniva compreso fino in fondo.
Nel suo sdrammatizzare le cose e le situazioni, sapeva dissimulare molto bene quello che in realtà era, e quale filosofia esistenziale inseguisse, lasciando solo per sé gli aspetti più profondi del suo modo d'essere che gelosamente ha conservato fino all'ultimo.
Cekhov suggeriva di scrivere tutto per poi cancellare quasi tutto; Tonti ha scritto tutto ma non ha cancellato nulla in questo suo raccontare, in modo smagliante l'esistenza nella quale, con straordinaria sensibilità e finezza, è riuscito a cogliere aspetti talora impercettibili con stile pulito, conciso ma ricco e trascinante al tempo stesso.
Romanzi a parte, parla spesso della sua vita e delle stagioni che l' hanno percorsa nei suoi variegati aspetti e, tra questi, ha voluto tra le altre cose anche far capire che "coltivare un pregiudizio significa entrare in una specie di gabbia mentale dove non c'è spazio per la verifica della verità e per una conoscenza meno limitata delle cose e delle persone".

Premio Gilberto Tonti

Confessò che gli piaceva scrivere, o per lo meno di provarci, perché amava il rischio e la seduzione: scrivere, infatti, è al tempo stesso, pericoloso e seducente.
È seducente perché la scrittura è figlia del silenzio interiore di dove, misteriosamente, emergono concetti e parole che possiamo meditare e cesellare fino alla perfezione; ed è pericoloso perché la parola scritta, appunto perché tale, non è più ritrattabile e può venire pertanto impallinata a morte, al primo tentativo di volo da qualsiasi cacciatore che la legga in malafede o non abbia cognizioni adeguate per un'interpretazione obiettiva.
Gilberto Tonti era originaria della parrocchia di Sant'Agostino di Cesena, dove vi era nato nel 1926; appena nato passò la sua prima estate nella villa di Cesenatico, in viale dei Mille dove trascorrerà fino all'età adulta ogni anno la stagione estiva, da maggio a settembre.
Di quei primi periodi di vita racconterà: "Era la ferra della mia giovinezza della quale continuo a subire il fascino profondo al punto che quando, volutamente o per caso, capito da quelle parti mi metto alla ricerca di angoli che non ho dimenticato e di volti conosciuti: e ogni volta ne trovo sempre meno. Avevo poche settimane di vita quando alle voci della casa al mare, quelle rassicuranti e conosciute di mio padre e di mia madre, si erano aggiunte quelle penetranti e acute dei gabbiani, il rumore incessante e tranquillo delle onde e le voci, sonore come richiami, e prolungate come lamenti,. dei vongolari che a pochi passi dalla riva dragavano la sabbia con le reti in cerca di telline e cappelunghe.

Premio Gilberto Tonti

Questi suoni - che ascoltavo per la prima volta in vita mia - hanno in qualche modo allargato i confini della mia conoscenza al di là della culla, che mi proteggeva da tutto e da tutti, e della casa, nella quale trovavo sicurezza e rifugio."
A 16 anni era già in possesso, grazie ad un permesso speciale, della licenza di caccia, una passione che l'accompagnerà assieme alla musica e alle buone letture, per gran parte della sua vita, come del resto quella dello studio diligente, volenteroso e con ottimo profitto, fino all'esame sostenuto per il corso di laurea in filosofia a cui si era iscritto, pochi giorni prima della sua dipartita.
Il padre voleva che diventasse ingegnere, ma prevalse la vocazione umanistica e filosofica rispetto alla tradizione famigliare di tecnici-progettisti.
Riguardo la sua professione, che ha sempre esercitato con grande competenza, puntigliosità e disponibilità, va detto che:
- a 23 anni era già medico (sarebbe interessante verificare quanti in Italia a quell'età abbiano conseguito una laurea in medicina);
- nel 1954 a 28 anni - buttando alle ortiche sistemazioni professionali sicuramente più prestigiose e alla sua portata - accettò dopo un concorso vinto, la sua prima condotta medica ad Alfero e, nel 1960, a 34 anni giunse a Mercato Saraceno dove rimase fino alla fine dei suoi giorni.

Premio Gilberto Tonti

Come altri medici ha iniziato ad esercitare la professione oltre mezzo secolo fa, in un mondo che non esiste più; i medici, gli insegnanti, le levatrici, in quegli anni - e in quel tipo di società - esercitavano un ruolo che conferiva loro autorità sia in campo professionale sia in quello sociale. Di quel mondo tutto o quasi si i spento, allo stesso modo di come si sono spenti anche quei protagonisti.
Alfero - all'epoca - era un luogo separato dal resto della vallata con un'unica strada; le altre erano tutte mulattiere e servivano per raggiungere luoghi come Pereto, Ronco di Mauro, la Radice, la Cascina - quindi zone prive di collegamenti e contatti, salvo qualche fiera o festa paesana.
Oggi, con il superamento di tutti questi aspetti, si e contribuito a globalizzare anche quel modo d'essere d'un tempo "le vecchie case sono state tradite - annota Tonti - e abbandonate e solo qualcuno, nostalgico, illuminato e testardo è rimasto a presidiare, più che le mura e le vecchie strade, la memoria di quel costume di vita".
Sempre ad Alfero nel 1956, il dottor Tonti fu insignito di medaglia d'oro al valor civile per aver salvato un ragazzo sofferente di appendicite perforata, in un momento in cui infuriava una tormenta di neve (era il febbraio 1956) che rendeva difficili i soccorsi nella zona detta Ronco di Mauro. Caricato il ragazzo su di una slitta rudimentale fu portato sulla strada principale alla volta dell'ospedale di San Piero dove fu poi sottoposto ad intervento chirurgico con esito favorevole.
- Sul piano della ricerca medica e dell'eziologia (il ramo della medicina che studia le cause delle malattie) ebbe un'intuizione - poi sostenuta da verifiche e riscontri - di cui però non ebbe il coraggio, oppure la faccia tosta, di farne una vera e propria pubblicazione scientifica (scrisse a tal proposito nel 1996: "non ho ancora deciso se quella volta ho perso l'occasione di procurarmi una certa notorietà oppure quella di farmi compatire"): riguardava l'eziologia virale del cancro e la sua probabile, ipotetica contagiosità,. in relazione a casi ricorrenti di tumore da lui diagnosticati: ben tre mogli di un certo Nazzareno della zona di Alfero che in assenza di fenomeni o fonti d'inquinamento, di pesticidi, di insetti, morirono una dopo l'altra e, dopo queste, la stessa fine toccò anche al marito per la stessa malattia, in condizioni ove:
- si consumavano alimenti naturali fatti in casa, acqua potabile, e nessuna forma di inquinamento ambientale, ecc..
- poi la provenienza da zone lontane e disparate delle stesse mogli, che non avevano legami di parentela, senza precedenti famigliari e in buona salute al momento del matrimonio.
E ciò avveniva anche in altre abitazioni della zona che il dottor Tonti aveva denominato "le case del cancro"; l'osservazione di tale fenomeno continuò anche quando si trasferì a Mercato Saraceno.
Approfondì le cause simili di morte che avvennero all'interno di un certo numero di famiglie (con due - tre decessi per ciascuna) senza alcun vincolo di parentela, residenti in zone molto distanti fra loro e in contesti ambientali differenti.
Avvalendosi anche dei referti delle cartelle cliniche dell'ospedale di Mercato (la tutela della privacy era ancora di là da venire) poté formulare un quadro generale scientifico. Ma nei suoi "Appunti di viaggio" - riportò:
"Restai a lungo incerto sull'opportunità di pubblicare i risultati di questa ricerca: alla fine decisi di soprassedere perché una quarantina d'anni fa non era facile e ci voleva coraggio per sostenere l'eziologia virale del cancro e la sua probabile contagiosità".

Premio Gilberto Tonti

Passiamo ora all'aspetto. meno noto ai più: Gilberto Tonti scrittore e romanziere. Oltre che bravo professionista, come già detto era anche un personaggio eclettico, dalle battute divertenti, talvolta salaci, con ricette mediche "personalizzate" ma, sotto certi aspetti, non pienamente conosciuto per quanto riguarda il versante letterario e culturale.
Probabilmente aveva visto bene nel lontano 1959 l'editore milanese Giangiacomo Feltrinelli (morto, come sappiamo, in circostanze tragiche vicino ad un traliccio dell'alta tensione), al punto di proporgli un'offerta molto allettante per l'epoca (10 milioni più il 18% sull'incasso lordo per le prime 50 mila copie) per la pubblicazione del suo primo libro, ma Gilberto, conformemente al suo stile - talvolta refrattario - non diede peso più di tanto alla cosa e declinò.
Voglio leggervi alcuni passi della lettera che Feltrinelli gli scrisse in quell'occasione;
Egr. dottor Tonti, contrariamente alle mie abitudini desidero trascriverle il giudizio dato sul suo libro dal mio collaboratore:
"Caro Feltrinelli, finalmente, dopo decine di stupidaggini che periodicamente mi sottoponi, ho letto qualcosa che veramente valeva la pena di leggere e che certamente rileggerò con la massima attenzione nei prossimi giorni. L'importanza dei problemi trattati - e di quelli non trattati ma semplicemente intravisti (faranno parte di un secondo volume? me lo auguro!) - è addirittura eccezionale. Le conclusioni tali da togliere il respiro ma di questo parleremo più diffusamente. L 'indagine filosofica (continua l'esposizione del collaboratore di Feltrinelli) acutissima, profonda è agghiacciante. Lo stile, coinciso e pulito, ma ricco e affascinante al tempo stesso è tale da lasciarmi alquanto dubbioso sulla circostanza da te riferita che l'autore, il dottor Tonti, sia alla sua prima opera. Non lo credo: sarà probabilmente il primo libro che invia ad un editore, ma non certamente il primo che scrive: a meno di possedere qualità del tutto particolari; non si matura di colpo, di getto, una personalità come questa. Vale dunque, mille volte la pena di pubblicare questo libro...".
Il titolo di questo libro mai pubblicato era "La beccaccia"; un titolo che si riallaccia ad un episodio di caccia vissuto direttamente dal dottor Tonti. Ed è questo:
"Eravamo più o meno verso la metà di ottobre quando Saina (cosi è soprannominato Zeno Caminati di Alfero) mi portò la prima beccaccia della stagione. Di quel volatile mi piaceva tutto: la vita solitaria, la stagione malinconica e triste che sceglie per le sue migrazioni; l'aspetto simpaticamente grottesco del suo corpo, sbilanciato in avanti per la lunghezza del becco e la brevità delle zampe, il volo rapido e ovattato come quello di un rapace notturno, la capacità di occultarsi all' interno di un bosco autunnale come un mucchietto di foglie dorate appena visibili, lo sviluppo atipico della sua calotta frontale a conferma di una maggiore intelligenza rispetto a specie diverse di uccelli e, infine, la partenza accorta e silenziosa, senza grida di allarme o di paura, sotto la ferma del cane.
Era una preda con la quale ambivo da sempre cimentarmi da solo... per questa ragione un mattino declinai l'invito di andare a caccia con altri e mi incamminai per conto mio, senza dimenticare di appendere all'ingresso dell'ambulatorio il solito cartello (burlesco come sentirete, ndr) del quale mi servivo per giustificare le mie assenze, per la caccia o per altri motivi: "aggi l'ambulatorio è aperto dalle ore 12 fino a mezzogiorno: ci vediamo, forse, domani mattina".
Arrivato sotto la rupe della Boia, a poca distanza dalle cave, dovetti aspettare prima di liberare il cane perchè la debolissima luce del mattino non era ancora penetrata nel sottobosco per diradarne l' oscurità umida e tenace.

Premio Gilberto Tonti

Quando entrai nella faggeta il bracco mi segnalò quasi subito la presenza di un animale e poco dopo era già inchiodato nella ferma: era una beccaccia che, dopo qualche istante, si staccò a volo radente dirigendosi verso la zona più oscura e profonda del bosco, come un lampo dorato appena percettibile.
Come al solito avevo caricato il fucile con una sola cartuccia per lasciare alla preda la giusta probabilità di salvezza ma, in quell'occasione, la beccaccia ebbe la doppia sfortuna di alzarsi alla mia sinistra e di volarmi di lato, anziché di fronte, e di avere incontrato un esperto come me nel tiro di stoccata.
Non la vidi cadere, ma ero tanto sicuro di averla colpita che ordinai al cane di fermarsi perchè aveva il difetto di sciupare un poco la selvaggina al momento di riportarla, e mi misi a cercarla da solo.
La trovai; era soltanto ferita e mi fissava con l'occhio ancora lucido di sofferenza e di vita.
Più che distinguere la macchia rotonda e nera della pupilla fra le foglie ingiallite, fui probabilmente richiamato dall'intensità di quell'occhio morente, colmo di terrore e d'impotenza, davanti alla mostruosa figura che si stava avvicinando a lunghi, inesorabili, passi.
Quando la raccolsi era ancora viva perché la ferita non era mortale... ma mentre la stavo esaminando con molta cautela per capire dove l'avessi colpita, dalla pupilla scomparve in pochi momenti la lucentezza nera e profonda della vita per cedere il passo alla grigia cortina della morte che stava rubando a quegli occhi l'ultimo istante di luce".
Da allora altri i suoi scritti (una decina in tutto) non hanno mai oltrepassato l'uscio di casa sua e, quando per motivi giornalistici pubblicai, una decina d'anni fa, una serie di articoli sul premio "Mario Tobino" vinto da Gilberto Tonti con l'opera "Tomar" ebbi modo di leggere altre sue opere e mi sono sempre chiesto cosa abbia spinto una "mente" di quello spessore a non rivelarsi al grande pubblico per quello che in realtà era: in un mondo come quello odierno dove conta, di gran lunga, più l'apparire che l'essere, il suo atteggiamento "silenzioso" e appartato spingeva a non poche riflessioni.
E la risposta la troviamo nel suo autobiografico "Appunti di viaggio": in un'affermazione: "Fugge tanto veloce la vita che ogni sorte è buona per così breve giornata".
Con questa frase intendeva ribadire la sua filosofia di vita - che condivideva con l'amico fraterno, compagno di studi e collega, dottor Pier Luigi Rossetti - secondo la quale "appare vano e talvolta grottesco galoppare a briglia sciolta lungo la brevissima spiaggia della nostra vita, impugnando la spada del potere, occultando sotto la celata dell'elmo l'arroganza della mente e, fra le pieghe dell'armatura, la borsa del denaro".
“Quante volte nel corso della mia vita - scrisse il dottor Tonti - ho preso letteralmente a morsi o a colpi di spada le opportunità che mi venivano offerte,.., anche se in certi momenti le motivazioni della mente sulle quali ho costruito la mia concezione di vita, sono crollate di fronte all'assalto furibondo delle passioni e di una carica vitale incomprimibile che, di volta in volta, mi costringeva prendere le distanze dall'atteggiamento abituale che ho di fronte alle cose, dando l'impressione di avere ribaltato il senso di quelle parole: 'fugge così veloce la vita che, proprio per questo, voglio ferocemente approfittare del poco tempo che mi è concesso per ricavarne il massimo di profitto e di piacere".
Il dare un significato all'esistenza e, soprattutto, alla collocazione anche al "dopo", rappresentò un vero e proprio dilemma esistenziale per il dottor Tonti: per lui il tema della morte è ricorrente; ne avvertiva fin dall'età giovanile la presenza immanente e minacciosa che portò a radicare in lui la convinzione della sostanziale inutilità delle proprie azioni e l'idea di girare praticamente a vuoto, facendo ogni cosa con la prospettiva finale del nulla.
Nel corso della sua professione di medico (ben 47 anni, dal 27 ottobre 1949 fino al 1996) e nell'assistenza ad alcuni suoi famigliari ed amici ebbe modo di constatare - cito le sue parole - "quella disperata resistenza opposta durante l'agonia all'offensiva del buio che inesorabilmente invadeva la loro coscienza, rifiutando fino all'estremo limite quel sonno senza fine che si stava impadronendo di loro".
"Ricordo - scrive sempre il dottor Tonti - ancora nitidamente, con la lucidità degli anni senili per le cose remote, che quando per la prima volta sui banchi del liceo mi sono imbattuto nel mito di Prometeo, ho subito invidiato di quella titanica figura - che ci veniva presentata come un esempio di indomabile coraggio - la condanna a vivere eternamente, a qualunque costo, molto più di quanto abbia ammirato quella sua sfida temeraria" (aveva infatti “rubato" il fuoco agli dei per donarlo agli uomini).
E qui appare il ricordo del padre, Pompeo, che concluse la sua esistenza in modo rapido, a differenza della madre, Noemi, che Gilberto rappresenta in modo struggente: "Si è sottoposta con fiducia e coraggio ad una lunga serie di accertamenti e operazioni pur di allontanare quel momento da lei tanto contrastato e temuto, che separa la nostra vita, per guanto insopportabile possa divenire, da quella condizione sconosciuta che forse ci attende, o forse no, al di là dell'ultima soglia: mia madre ha difeso fino all'ultimo istante quella manciata di giorni e di ore che le restavano. Rifiutava ostinatamente – continua la sua testimonianza - i sonniferi per timore di allungare il sonno fino alle soglie di quello fatale e quando morì,. fra le 5 e le 6 pomeridiane di una brevissima giornata di dicembre, aveva gli occhi semichiusi rivolti verso la luce di un lampadario, quasi volesse esorcizzare per l'ultima volta il buio che si vedeva fuori dalla finestra, e quello interminabile che stava arrivando.
Ho compreso mia madre molto di più di quanto comportasse la mia condizione di figlio perchè, da quando ricordo, ho sempre coltivato dentro di me, con alterni momenti di fiducia e di sconforto, la speranza di trovare al di là della morte una qualsiasi forma di vita, sia pure infernale e punitiva, ma purché si tratti di vita".
“I ricordi sono come foglie ingiallite, a malapena galleggianti sull'acqua stagnante del nostro passato - leggo da "E se fosse tutto vero?" - di quella parte di vita sempre più lunga che, inesorabilmente ci lasciamo alle spalle. Viviamo all'interno di una cultura che di fronte alla morte non trova rimedio che nascondere e banalizzare l'unico vero problema della vita. L'allungamento dell'età scolare non ha portato all'espansione della cultura, ma, piuttosto dell'ignoranza e della diseducazione. La cultura - come sempre – è riservata a poche persone che, generalmente vivono nell'ombra e nel silenzio”.
Negli ultimi anni diceva, invece: “Quante vorrei riascoltare, per qualche istante, le voci rassicuranti e pacate che riempivano la casa di mio padre alternandosi a Funghi momenti d’ opportuno silenzio. Il senso del tempo che vorticosamente mi scivola dentro le spalle come la scia ribollente di una nave, io la provo ogni volta che ricordo mio padre o mi vedo riflesso nello specchio mentre mi faccio la barba.
Perchè scelse di iscriversi a Filosofia all'età di 75 anni?
Si può intuire da queste sue affermazioni: "Ho letto da qualche parte che quando i confini morali si fanno indistinti come quelli che separano la vita dalla morte, il medico dovrebbe spogliarsi del camice per indossare la zimarra, la veste, del filosofo".
Sul finire dell'esistenza si è costretti a tirare le conclusioni; le ultime di tutta una vita, quelle che non ci lasciano scampo e per le quali non c'è ricorso in appello; "la morte rappresenta l'estremo confine della nostra conoscenza - annotava ne "La critica della ragion perduta" - quello che separa le cose note da quelle sconosciute, quelle sicure da quelle opinabili e reclama pertanto l'intervento speculativo della filosofia; non la pensavo cosi nei primi decenni della mia professione ma ora, libero da una certa arroganza professionale che, fatalmente, ha ceduto il passo all'umiltà della riflessione e della paura, ho compreso che l'uomo ha bisogno di una lente protettiva - umana o divina che sia, di amore o di fede - per sostenere la luce troppo viva di quella fornace che incessantemente ci dispensa la vita e la vertigine buia di quell'abisso che, un attimo dopo, ce la toglie... per tutti noi non c'è che l'angoscia comune davanti l'insolubile mistero della nostra fine.
Le contraddizioni nelle quali mi sono imbattuto e le domande che mi sono rivolto durante la vita sono praticamente infinite e devo dire che, per tutte o quasi tutte, non ho trovato una risposta capace di addomesticare quel demone logico e razionale che si annida dentro di me, ostinato e maligno, inestirpabile e tenace come una pianta di loglio".
Riguardo questi problemi esistenziali e religiosi ha infatti affermato: "Sono costantemente combattuto fra l'anima ribelle che mi conduce alla negazione di tutto e la lunga tradizione di fede che ho respirato nella mia famiglia, fino alla morte di mio padre.
Credere in Dio e, di conseguenza, nella vita eterna non elimina l'angoscia della morte ma consente una speranza, una specie di antidoto contro gli interrogativi che continuamente ci rivolgiamo sul nostro destino.
Ho cercato e qualche vota intravisto e altrettante volte respinto, lungo i tornanti del mio tragitto, l'immagine giusta dell'assoluto, ritrovandomi alla fine del cammino, in una drammatica babele di concetti e di simboli figurativi".
Dell'immagine di Dio e della Trinità, cosi come concepita negli anni ridenti e fuggitivi della sua infanzia, comincia a cambiare qualcosa rispetto a quello scenario rassicurante e protettivo con la conoscenza dei classici della letteratura russa come Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij, ed altri nei quali, il grande romanziere, affronta temi di rilevanza filosofica ed esistenziale, come ad esempio quelli della fede, del libero arbitrio dell'uomo, del conflitto tra bene e male e della vera natura della giustizia.
Riguardo invece i rapporti con se stesso e con gli altri, ha scritto: "In certi momenti mi mancava la discussione, magari polemica e pungente con qualcuno capace di tenermi testa e di affrontarmi alla pari perchè il mio cervello è sempre stato e rimane capace, abilmente capace, di impostare un problema ma poi ha bisogno di qualcuno che ne contesti efficacemente le posizioni di partenza e le conclusioni: esattamente come capita a certi oratori ai quali serve il dibattito - anche aspro – per esprimere la parte migliore del loro repertorio".
Vi sono stati momenti della sua vita in cui ha vissuto in una specie di solitudine mentale che gli permetteva di prestare la dovuta attenzione alle tante cose delle quali si occupava, ma senza per questo intaccare la sua libertà intellettuale e affettiva; e in certe situazioni possedeva la singolare capacità di assentarsi mentalmente ogni volta che la conversazione toccava argomenti che per lui erano privi di interesse.
Sempre ne "La critica della ragion perduta" parlando in terza persona definì sé stesso in maniera straordinaria, lucida:
"Era cortese ma con distacco, efficiente come pochi nel suo lavoro ma totalmente impenetrabile alle emozioni, affabile, addirittura gentile ma senza quell'espansività eccessiva; apprezzato ma non amato (all'infuori che dalle donne nelle quali suscitava furibonde passioni), molto ricercato per le sue indiscutibili qualità di professionista ma altrettanto detestato per la sua dissacrante mancanza di adattamento alle regole della convivenza sociale.
Una persona che ha scrupolosamente fatto tutto quello che doveva fare restandone, però, sostanzialmente fuori... per la rara capacità di mantenere, in qualunque circostanza, la più completa libertà emotiva e mentale".
Come ha già anticipato il presidente Giorgio Partisani con questo premio è iniziato un percorso che porterà anche alla pubblicazione delle sue opere e la prima potrebbe essere “Tomar”, un testo di stretta attualità che, nel 1997, vinse il premio letterario "Mario Tobino" con la seguente motivazione:
"Testo molto interessante di ricerca storica sulla nascita dell'Ordine dei Templari al tempo delle Crociate. L 'elemento fantastico si inserisce ottimamente nella ricerca senza diventare dominante, contribuendo a donare fluidità e vivacità alla narrazione".
"Tomar" è una cittadina portoghese conosciuta per la presenza, nella sua periferia, del "Convento Do Cristo", la casa madre dei Templari per tutta la penisola iberica, costruita per volere di Afonso Henriques di
Borgogna, re del Portogallo, e donata nel 1172 ai Templari portoghesi in segno di riconoscenza per l'appoggio militare contro l'occupazione mussulmana.
La prima parte del romanzo "Il Templare di Castro Marim" si svolge per l'appunto fra Portogallo e Terra Santa, a cavallo dei secoli XI e XII; la seconda parte "Il carnefice di Rennes" fra Parigi e Avignone all'inizio del secolo XIV mentre, l'ultima, "Il Golem", nella Praga rinascimentale del XVI secolo.
Il romanzo suscita grande interesse nell'ambito di personaggi di spicco in campo culturale nazionale, fra cui il noto critico d'arte, Vittorio Sgarbi ed altri.
Hegel diceva che nel mondo nulla di grande è stato fatto senza passione e Gilberto Tonti di passione ne ha coltivata tanta, non confessando probabilmente, nemmeno a se stesso le qualità di bravo scrittore che possedeva, lasciandole semplicemente in eredità o in dono agli altri attraverso queste sue opere, esattamente come avviene per le cose più preziose che rimangono nascoste per vario tempo, in attesa di veder riconosciuto il loro reale valore, anche al di là del tempo che si può vivere.


    Edoardo Maurizio TURCI

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