MARIO PAZZAGLIA
I POEMI CONVIVIALI
Nella Conviviale del 28 maggio Mario Pazzaglia, maestro di più di una generazione di studenti con la sua storia della letteratura italiana, professore emerito dell’Università di Bologna, Presidente dell’Accademia Pascoliana di San Mauro Pascoli, ha celebrato il centenario dei Poemi Conviviali.
Di solito nel Rotary le relazioni si condensano in venti minuti, ma i cinquanta e più in cui ha svolto i temi più complessi di una poesia che raggiunge i vertici della meditazione sul senso della vita sono trascorsi in un attimo. Il messaggio del poeta filtrava oltre il tempo. Si facevano i conti con ciò che vale la pena di vivere.
Il Pascoli è “lontano dallo storicismo romantico-idealistico e, in sostanza, anche dal mito positivistico del progresso.
Quella di Pascoli è una concezione ciclica della storia, fondata, se mai, sugli eterni ritorni, sul dramma dell’io, della sua piccola come della grande storia davanti alla morte, della quale nessuno, a suo avviso, può comprendere la ragione e la giustificazione. In tale prospettiva egli vede la motivazione del Cristianesimo nella coscienza piena del dolore umano e nel messaggio di fraternità e di pace che permane l’unico conforto al buio che circonda la vita dell’uomo”.
Un pessimismo radicale, dunque, senza l’impeto di rivolta di quello di Leopardi, ma come questo non disgiungibile da un inestinguibile amore della vita: di quel sogno che rimane l’intima, remota e intatta poesia del cuore”.
I personaggi che Pazzaglia mette in correlazione in questa rassegna da Solone, a Ulisse, ad Alessandro Magno, a Psiche, al Galata morente sono solcati da questa tragicità dal volto più cristiano che greco.
Pubblicheremo in Realtà Nuova e in Internet il testo integrale di questa magnifica “lezione” che si lega all’altra che nel pomeriggio il prof. Pazzaglia aveva tenuto nell’Aula Magna Renato Serra del Liceo Monti per gli studenti.
Questa era sui Canti di Castelvecchio di cui si è celebrato il centenario lo scorso anno.
Il tema era su “Le due Romagne”, la prima di Myricae e l’altra del Ritorno a San Mauro.
Adesso tocca a noi, in accordo con l’Accademia Pascoliana, continuare queste “Letture pascoliane” nell’Aula magna del Liceo classico Monti per gli studenti e le persone che amano meditare e insieme sentire il calore della nostra poesia più vicina e più alta.
Pietro Castagnoli
NEL CENTENARIO DEI POEMI CONVIVIALI
Ricorre quest’anno il centenario dei Poemi Conviviali, usciti presso l’Editore Zanichelli a Bologna, nel 1904, tranne I Gemelli, aggiunti nella seconda edizione l’anno seguente.
Il libro sta incontrando una nuova e certo ben giustificata fortuna nella approfondita lettura dell’opera pascoliana proposta oggi dalla critica.
Il titolo non sembra derivare dal fatto che i primi tre, Gog e Magog, Solon, Alexandros uscissero nel 1895 in una rivista d’avanguardia, il “Convito” di Adolfo De Bosis, di dominante ispirazione, in quel momento,dannunziana, ma dalla memoria del convito e del suo valore nella Grecia antica, come occasione di incontro, celebrativo, di fatto, di un ethos e di una civiltà comuni, ribadita dalla presenza del poeta: della poesia, cioè, come fondazione e coscienza di questa civiltà, ispiratrice essenziale di quella europea, insieme con tutte le manifestazioni culturali e artistiche dei Classici.
Pertanto“Bibbia Giapetica”, chiamò Pascoli la testimonianza costruita dalla letteratura dei Classici, perché espressione di paradigmatica funzione civilizzatrice analoga a quella fondata dalla Bibbia “semitica”.
La celebrazione del messaggio affidato ai grandi poeti antichi veniva dunque concepita e vissuta da Pascoli come una sorta di rito di fedeltà ai valori più alti della tradizione; al loro incentivo di ardua conquista spirituale nel pathos dell’esistenza.
I Conviviali possono, in tal senso, essere considerati un unitario poema della storia europea, ove li si completi con i grandi poemetti latini delle Res Romanae e dei Poemata Christiana, composti in quella che Pascoli chiamò la lingua latina antica, sottolineandone l’intima congruenza con quella recente, ossia l’italiano, nei due Inni scritti per il cinquantenario dell’Unità in entrambe le lingue.
In essi, accanto alla storia di Roma e al suo secolare messaggio, si esalta la Torino attuale, per le industrie meccaniche e dolciaria mentre si esalta, al tempo stesso la storia del Piemonte e la sua funzione nella vicenda risorgimentale.
Fra i poemi cristiani, nei quali si assiste all’incontro e scontro fra civiltà romana e cristianesimo e i due Inni vanno considerati il Medio Evo delle Canzoni di Re Enzio, i Poemi del Risorgimento e altri testi di minore ampiezza etico-politica, a cominciare da quelli garibaldini.
In tutti il cantore di Myricae si proponeva come cantore della storia della sua gente, che dalla Grecia antica e da Roma aveva avuto il più importante insegnamento ideologico e civile.
Poeta della storia, dunque, Pascoli, nei Conviviali, che si aprono col tema del convito, per passare poi all’ epos omerico, concentrato nei poemetti dedicati ad Achille, l’eroe del dovere, e alla guerra di Troia ( La cetra di Achille, Le Memnonidi, Anticlo), e al paradigma del destino umano nella figura di Odisseo (Il sonno di Odisseo, L’ultimo viaggio) e, più oltre, in quella di Alessandro Magno (Alexandros), per spaziare poi liberamente a considerare l’ ethos greco (I poemi di Ate, I vecchi di Ceo) e la risposta data dagli Antichi al problema della morte (Psyche, La civetta).
Questa struttura unitaria, viene conclusa da Tiberio (l’Impero romano nel suo aspetto di violenza e dominio), da Gog e Magog (l’irruzione dei barbari in Occidente) e dalla vicenda presso che concomitante e comunque sia segno anch’essa d’un passaggio di civiltà, o meglio d’una decisiva fase di essa sul piano etico e spirituale: l’avvento del Cristianesimo, presentato in La buona novella, soprattutto nel secondo dei due poemetti, In Occidente.
Non sono mancate critiche al Pascoli poeta della storia, sottolineanti la sua distanza dal Carducci, considerato anche come unico degno esaltatore della Classicità (“omerida”, come lo chiamò, peraltro non del tutto propriamente, il Croce) : una distanza anche poetica.
In realtà il giudizio non appare condividisile né sul piano concettuale né su quello poetico, a nostro avviso, ma piuttosto rispondente a due diversi modelli di cultura e di civiltà, che non è possibile, ora, discutere adeguatamente.
Conviene pertanto delineare almeno sommariamente quello pascoliano, che è ben lontano dallo storicismo romantico-idealistico e, in sostanza, anche dal mito positivistico del progresso.
Quella di Pascoli è una concezione ciclica della storia, fondata, se mai, sugli eterni ritorni, sul dramma dell’io, della sua piccola come della grande storia davanti alla morte, della quale nessuno, a suo avviso, può comprendere la ragione e la giustificazione.
In tale prospettiva egli vede la motivazione del Cristianesimo nella coscienza piena del dolore umano e nel messaggio di fraternità e di pace che permane l’unico conforto al buio che circonda la vita dell’uomo.
La sua è una filosofia della vita, non lontana da certe motivazioni esistenzialistiche e il suo valore o meno non va commisurato ad altre concezioni, come un incongruo cammino verso una loro assoluta verità.
Il mondo classico perde per lui la totale esemplarità goduta a partire dall’epoca umanistica, pur conservando il fascino di vero e grande iniziatore della nostra civiltà, per rivelarsi anche in una drammaticità che lo rende attuale, lo accomuna al mondo moderno.
Si pensi alla “favola” dei poemetti Psyche o La civetta: il primo vede la morte come un ritorno dell’io nel grembo di Pan, cioè nella natura, il secondo come l’approdo a un altro mondo nel quale l’io sopravvive nella sua specificità individuale.
Insieme esprimono il pathos di un’oscillazione pascoliana davanti al buio della morte.
Il secondo vive nel poeta intimamente fuso con la nostalgia della madre, il primo, che domina in lui sul piano ideologico, come liberazione dal principium individuationis dell’uomo, nato per la morte e che non si rassegna a essa.
Questa aporia è espressa esemplarmente, dall’eroe Odisseo in L’ultimo viaggio, unitamente al tema di quella morte nella vita che è il passato, il continuo perdersi dell’io nell’assenza:
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Sonno è la vita quando è già vissuta:
sonno; ché ciò che non è tutto è nulla.
Io, desto alfine nella patria terra,
ero com’uomo che nella novella
alba sognò, né sa qual sogno, e pensa
che molto è dolce a ripensar qual era.
Or io mi voglio rituffar nel sonno,
s’io trovi in fondo dell’oblìo quel sogno.
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Quel sogno era il perduto, il tempo della poesia della vita, dall’infanzia, per Pascoli, all’adolescenza, alla giovinezza delle grandi idealità perseguite non come labili, e dunque inconsistenti, come il costante perdersi della vita che è già preannuncio, o meglio, presenza della morte alla vita, del perpetuo flusso della natura e dell’esistenza in cui si dissipa il sogno e, con esso la vera consistenza dell’io.
Lo dirà anche Alexandros, che giunto alla fine delle sue gloriose imprese interpreterà il sogno come “ l’infinita ombra del vero”: un infinito
che ha la stessa vastità e labilità, ma anche la gioia, del sogno.
E questo scopre ora Odisseo nel suo viaggio, che le sue imprese gloriose, cui diede consistenza la poesia, cercando di superare la condanna del tempo, non esistono più.
Così Circe appare irraggiungibile, per sempre perduta, e con lei un grande sogno d’amore d’un giorno, di Polifemo non sopravvive neppure la memoria, di lui come dei mitici Ciclopi, e lo stesso vale per le altre avventure che tennero l’eroe lontano dalla pur bramata Itaca.
Uniche in qualche modo reali sono le Sirene, alle quali Odisseo chiede, pur rassegnato ormai a morire, chi è, chi era: la sostanza di quel grumo di vita che si rapprese un giorno in una persona, in un io.
La risposta
è l’ultimo naufragio della nave e suo; e viene espressa quando
egli, morto, giungerà, cadavere, a Calipso che l’amò,
ma non riuscì a fargli accettare il dono dell’immortalità,
e commenta ora definitivamente la storia di lui e di tutti:
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-Non esser mai! non esser mai! più nulla,
ma meno morte, che non esser più!-
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Parole che sembrano arieggiare l’ambigua incomprensibilità dei decreti del fato, ma che, in realtà, presentano un significato inesorabile: è meglio il non esistere, piuttosto che l’essere per la morte.
Esso sarebbe un nulla maggiore, ma certo un minore strazio: l’assenza di un’angoscia forse vana.
Un pessimismo radicale, dunque, senza l’impeto di rivolta di quello di Leopardi, ma come questo non disgiungibile da un inestinguibile amore della vita: di quel sogno che rimane l’intima, remota e intatta poesia del cuore. Di fronte alla desolata conclusione di Alexandros sta il sognare l’infinito di sua madre, che ascolta un messaggio costante dell’Ignoto:
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In tanto nell’Epiro aspra e montana
filano le sue vergini sorelle
pel dolce Assente la milesia lana.
A tarda notte, tra le industri ancelle,
torcono il fuso con le ceree dita;
e il vento passa e passano le stelle.
Olympiàs in un sogno smarrita
ascolta il lungo favellìo d’un fonte,
ascolta nella cava ombra infinita
le grandi quercie bisbigliar sul monte.
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Questo incrollabile amore della vita, pur nel disinganno, appare evidente nella storia di Psyche, che ha perduto l’amato (lo stesso dio Amore) e si lascia convincere dal dio Pan, ultimo conforto, ad affrontare non renitente, ma con dolcezza, la morte, percorrendo la via delle anime, tra il nocchiero Caronte e Cerbero, compiendo gli atti rituali prescritti da Pan:
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Tu la focaccia prendi su, col miele,
tu chiudi nelle labbra scolorite
l’obolo; e non so quale alito lieve
ti porta via. Per dove passi, un’ombra
passa, non più che d’ali di farfalla.
Ma tu non dormi e lievemente il vecchio
ti prende il piccolo obolo di bocca;
ma tu lo senti, e senti anche la rauca
lena del vecchio rematore, come
se alcuno seghi il duro legno […]
anche senti un latrato solitario;
e tremi tanto, che di man ti sfugge
ah! la focaccia, e fa un tonfo nell’acqua
morta del fiume. Ed anche tu vi cadi,
cadi nel queto vortice del nulla.
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Ora invano tutti piangono e cercano Psyche, che vive, nel contempo nel vento, nella selva, nel bozzolo d’un insetto, nel sole; in ogni forma della natura, dove umile e sublime coincidono: nell’immensità perenne della vita.
Era così che Pascoli sognava il grande incantesimo della poesia, mentre concludeva, in quegli anni, Il fanciullino, aggiungendo allo stupore d’una perenne infanzia ritrovata al fondo dell’animo, una consapevolezza e volontà di destino, che consisteva, conclude, nel “riconfondersi nella natura, donde uscì, lasciando in essa un accento, un raggio, un palpito nuovo, eterno suo”; e nel ricreare,meglio, nel creare nell’armoniosa lingua della poesia, le cose e la coscienza intima di esse nell’animo umano, legandolo in simbiosi perenne alla vita, di là dalla sua vanità e dalla morte, dalla limitatezza del principium individuationis.
In questo senso, sorvolando su altri notevoli aspetti della poesia “conviviale”, pare opportuno soffermarsi su un passo di Il poeta degli Iloti,(La notte, vv.36-54), nel quale Pascoli rivela la sua vocazione (o chiamata) alla poesia da parte della natura/vita:
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E in una notte come questa…Il sonno
non mi voleva […]
E insonne udivo un mormorar di selve,
un correr d’acque, un mormorìo di fonti.
E s’esalava un infinito odore
dai molli prati, e tutto era silenzio,
e tutto voce; ed era tutto un canto:
Ed ecco tutto io mi sentii dischiuso
all’universo, che d’un tratto invase
l’essere mio; né così lieve un sogno
entra nell’occhio nostro benché chiuso:
E tutto allora in me trovai, che prima
fuori appariva, e in me trovai quel canto,
che si frangea nell’anima serena
piena,nell’alta opacità di stelle.
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Le affermazioni di poetica, o come ora s’usa dire, metapoetiche, tramano tutto il libro, che tuttavia non culmina in una mera prospettiva estetizzante in senso aristocratico-decadentistico.
Basta ricordare una lirica come L’ora di Barga per ritrovare quella che altrove ho chiamato democrazia poetica di Pascoli : la fusione di umile e sublime sul piano conoscitivo, contenutistico e formale, in nome della quale analoga dignità è attribuita all’albero, all’ape, al fiore, allo stelo, alle cose che hanno secoli o solo un anno, o un’ora e alle nubi erranti nel cielo come una promessa di ignoti, indefiniti cammini.
Accanto a questa tematica appaiono ben vive nei Conviviali quella della dignità e della solidarietà umana e quella della pietà reciproca che
Pascoli mutua dal Cristianesimo, pur senza accoglierne la motivazione religiosa.
Il libro pertanto termina con questo messaggio: La buona novella, esemplata nelle due liriche In oriente, nella quale i pastori accorsi al presepio acquistano coscienza di trovarsi dinanzi alla religione del dolore; e In occidente, dove essa si propone come conforto a una delle pene più strazianti: il gladiatore agonizzante abbandonato da tutti fra i cadaveri, lontano da ogni dignità, da ogni speranza, da ogni consolatrice solidarietà nel dolore.
Ma proprio qui, nello spoliarium che giustamente Pascoli definisce “immondo”, entra l’Angelo nunzio della nuova religione e pronuncia una parola, “Pace” che diviene l’estremo conforto del morente, l’unico a udirla “ nella infinita urbe dei forti” intesa alla crapula e a predare il mondo.
Si sono voluti indicare, nel presente discorso, alcuni cardini ideologici del libro, sui quali però, trova appoggio una variegata rappresentazione del reale: dall’eroismo di Achille davanti al destino, all’etera che si trova in uno squallido oltretomba coi figli non voluti cui negò la nascita, al Sileno, dove una statua del dio ritrovata intatta dai cavatori entro una roccia rivela, per successive visioni, al giovane grande scultore Scopas i sommi capolavori della scultura greca.
Fra di essi è Afrodite, appena emersa dal mare che la generò, che vela con le pure braccia “le sacre fonti della vita”, cioè il seno e il grembo, figura della poesia pascoliana della maternità, dell’amore che crea vita, di là da ogni egoismo, nella pura gioia del dono.
L’amore è ben presente nei Conviviali, in Achille che attende con coraggio l’aurora, e dunque la morte, abbracciato alla dolce schiava, nella madre che perdona il figlio, lo salva da un oltretomba di pena e ritorna qui in terra a soffrire con lui e per lui, alla suprema definizione di esso offerta da una grande lirica di Saffo, ricostruita su vari frammenti della poetessa a noi pervenuti, mirabilmente tradotti, che lo presentano allusivamente come volontà e voluttà di dileguare in un infinito presentito, non traducibile in immagine, ma profondamente vissuto dall’essere intero, come quello per Circe, invano risognato da Odisseo, ma rimasto come eredità spirituale nella musica della cetra mossa dal vento del poeta Femio che muore mentre attende il ritorno di Odisseo dalla vana ricerca di lei.
E’, dunque, creazione poetica, o, se si vuole, ritrovamento d’un sublime celato nell’inconscio, ma vivo e fondatore di vita; definito come funzione, o essenza arcana che dormiva nel cuore per morire al suo stesso destarsi: un’ansia segreta di totalità e autenticità piena del vivere, ritrovabile, come afferma la vicenda di Psyche e quella del poeta in quanto poeta, interprete d’una sostanza inafferrabile della natura/vita; di un sogno più vero del vero.
Esso è, in sostanza, riconducibile alla ritrovata identità simbiotica con la natura, affidabile soltanto alle rivelazioni fugaci e tuttavia beatificanti della poesia o ad analoghi gesti supremi d’amore, come quello testimoniato dalla grande poetessa greca in Solon:
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[…] Il mio non sembra
che un tremore, ma è l’amore, e corre,
spossa le membra!
M’è lontano dalle ricciute chiome
quanto il sole, sì, ma mi giunge al cuore,
come il sole: bello, ma bello come
sole che muore.
Dileguare! e altro non voglio: voglio
farmi chiaritè che da lui si effonda.[…].
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Né deve stupire il fatto che Pascoli, rinviando le bozze a De Bosis desse una spiegazione di questi versi riportandoli a un mito solare di tramonto e di estremo perdersi della luce.
A nostro avviso egli conduceva in tal modo il lettore al tema centrale della sua visione del mondo: la congruenza d’ogni cosa col flusso metamorfico della vita.
Nel caso presente l’amore era visto miticamente come intuizione vissuta di un essere troppo spesso, e troppo, lontano dall’esistere, ma a questo, come a ogni rivelazione che parta, come quella poetica, dal profondo dell’animo, arcanamente e tuttavia in pienezza esistenziale, sia pure in fugaci illuminazioni, congiunto.
Mario Pazzaglia
Conviviale del 28 maggio 2004 al Rotary Club Cesena
Mario PAZZAGLIA
Professore ordinario di Filologia dantesca dell'Università di Bologna facoltà Magistero, Corso di laurea in Materie Letterarie
pubblicazioni:
(volumi)
– Il verso e l'arte della canzone nel "De vulgari eloquentia", Firenze, La Nuova Italia, 1967;
– Teoria e analisi metrica, Bologna, Pàtron, 1974;
– L'armonia come fine. Conferenze e studi danteschi, Bologna, Zanichelli, 1989;
– Manuale di metrica italiana, Firenze, Sansoni, 1990.
(edizioni)
– Dante, Opere, a cura di M. Porena e M. P., Bologna, Zanichelli, 1966;
– La metrica. Testi a cura di R. Cremante e M. P., Bologna, Il Mulino, 1972;
– Letteratura italiana. Testi e critica con lineamenti di storia letteraria, ultima ed., Bologna, Zanichelli, 1992, voll. 4;
(saggi, prefazioni, introduzioni)
– I "Promessi sposi" e la forza della vita, in Come si legge un testo, a cura di M.L. Altieri Biagi, Milano, Mursia, 1989;
– Nel centenario di "Myricae", in «Alma Mater Studiorum», 1991, IV, 1, pp. 283-307;
– voce Metrica, in Appendice V dell'Enciclopedia Italiana;
– Metricologia italiana fra Antonio da Tempo e Gian Giorgio Trissino, in Studi in onore di G. Vecchi, Modena, Mucchi, 1989, pp. 29-37;
– Pascoli lettore dei "Promessi Sposi", «Rivista Pascoliana», 1 (1989), pp. 75-93;
– Überlegungen zur gegenwärtigen Literaturgeschichtsschreibung in Italien, in Literaturgeschichtsschreibung in Italien und Deutschland, Tübingen, Niemeyer, 1989, pp. 114-32;
– Considerazioni su "L'asino" di Giovanni Pascoli, «Critica letteraria», 66-67, 1990, pp. 371-83;
– Poetiche di "Myricae", in Nel centenario di Myricae, Atti del Convegno pascoliano di San Mauro Pascoli, 19-20 maggio 1990, Firenze, La Nuova Italia, 1991, pp. 141-91;
– Foscolo e la rivoluzione francese, «Rivista italiana di studi napoleonici», 1-2 (1992), pp. 283-307;
– Il ritorno di Beatrice, in Miscellanea...Pasquazi, Napoli, Federico & Ardia, 1994.
(cura di atti, miscellanee e mostre)
– Nel centenario di Myricae, Atti del Convegno pascoliano di San Mauro Pascoli, 19-20 maggio 1990, a cura di M. P., Firenze, La Nuova Italia, 1991.
cariche, titoli, onorificenze
– Direttore della collana «Quaderni di San Mauro» dell'Accademia Pascoliana di San Mauro Pascoli, pubbl. presso La Nuova Italia e giunta al vol. X;
– Direttore della «Rivista Pascoliana» (con Giuseppe Nava e Alfonso Traina), pubbl. annualmente dal 1989;
– Presidente dell'Accademia Pascoliana di San Mauro Pascoli;
– Socio onorario della Rubiconia Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone (FO);
– Cittadino onorario di San Mauro Pascoli per meriti culturali;
– Cavaliere della Repubblica italiana.