ISLAM E CAPITALISMO
NELLO SVILUPPO DEI PAESI IN TRANSIZIONE
La scottante attualità dei rapporti fra islam e capitalismo nei paesi i transizione non deve nascondere la contingenza di un tema che, solo pochi decenni fa, avrebbe potuto essere declinato come "comunismo e capitalismo nei paesi in via di sviluppo". È infatti solo dopo il collasso dell'impero sovietico e l'affermarsi della globalizzazione che si é accentuato il ruolo dell'islam come antagonista del modello occidentale di sviluppo e, nello specifico, della cultura d'impresa.
Prima di affrontare la questione bisogna ricordare le fasi che ha attraversato il rapporto fra i diversi sistemi economici ed in particolare fra i cosiddetti paesi sviluppati e non. Nel dopoguerra, oltre al passaggio puramente nominale dei paesi sottosviluppati a paesi in via di sviluppo, l'intervento dell'occidente rivolto ad elevare le condizioni di vita delle nazioni più povere si é manifestato prevalentemente attraverso l'aiuto finanziario diretto o con l'acquisto di prodotti (per la maggior parte minerari ed alimentari). Questo aiuto ha raramente prodotto un miglioramento delle condizioni di vita (Salvo che per i paesi dell' OPEC) mentre ha avviato, nei paesi destinatari degli aiuti, una corsa agli armamenti e più in generale, spese faraoniche che in misura minimale hanno determinato un diffuso incremento della ricchezza. A questa fase se ne é sostituita un'altra nella quale si é cercato di qualificare gli interventi in termini di prodotti e servizi di supporto allo sviluppo per evitare che gli aiuti finanziari venissero utilizzati da una oligarchia ristretta e a fini distorti. C'é anche da notare che ne frattempo (anni settanta) la bilancia alimentare dei paesi in via di sviluppo, sino ad allora largamente positiva, é diventata deficitaria mentre si manifestavano crescenti eccedenze nei paesi industrializzati, per assurdo caratterizzati dalla riduzione delle superfici coltivate o destinate ad allevamento.
Con l'emergere dei movimenti anti occidentali ed anti imperialistici ma anche spesso con il ravvivarsi di conflittualità interne ai paesi poveri (Vedi Etiopia, Somalia, Eritrea, Ruanda etc.) anche la politica degli aiuti tecnici ha segnato il passo. Rapimenti ed uccisioni di tecnici, difficoltà allo sviluppo delle imprese e instabilità politiche hanno fatto volgere l'attenzione all'aiuto alimentare che,oltre ad essere di immediata utilità per le popolazioni è anche più facile da somministrare senza coinvolgimenti operativi con le strutture locali e non necessita di personale in loco ed esposto a rischi imprevedibili, indipendentemente dagli scopi umanitari della sua azioni. Questo tipo di aiuto é stato in alcuni casi così massiccio da produrre distorsioni nel regime alimentare di molte aree imponendo grano e riso ove imperavano il farro e la tapioca o favorendo con il latte in polvere e condensato l'abbandono dell'allattamento naturale, un mutamento di costume fuori luogo in ambiente caratterizzati da un inconsistente sviluppo economico e da una bassa occupazione femminile fuori della famiglia o del clan. Ancor peggio, l'aiuto alimentare ha innescato una crescita demografica senza sviluppo peggiorando, nonostante l'incremento degli aiuti, il rapporto fra disponibilità alimentare e popolazione.
Si é approdati dunque all'attuale fase di aiuto strutturato, rivolto cioè a creare strutture economiche quali i sistemi di piccole e medie imprese o le agenzie di sviluppo locale rivolte a promuovere accordi fra le istituzioni locali pubbliche e private interessate allo sviluppo del territorio di competenza.
Questo intervento ha avuto i suoi apici nel tentativo - anche questo quanto mai problematico - di imporre una struttura dello stato democratica di modello occidentale considerando lo sviluppo economico come innesco di uno sviluppo civile e istituzionale come é avvenuto e sta avvenendo per Somalia Serbia, Bosnia, Afghanistan ed Iraq.
In questa fase si è affermata anche la nuova strategia americana rivolta alla ristrutturazione geopolitica dell'area medio orientale culla della religione islamica.
In questo é emerso con sempre maggiore drammaticità il rapporto antagonistico con l'Islam e la questione della compatibilità di questa religione - che nel suo integralismo corrisponde anche ad un preciso modello di vita - e la cultura dell'impresa o più in generale del management.
Che fra etica religiosa e spirito del capitalismo esistesse un qualche rapporto era già stato messo in evidenza da Max Weber nel suo classico Etica Protestante e Spirito del Capitalismo nel quale il sociologo tedesco analizzava il legame esistente fra l'etica calvinista e lo spirito di auto realizzazione che anima l'imprenditore.Ma anche Amintore Fanfani nel suo lavoro su Etica Cattolica e Spirito del Capitalismo e Joan Robinson con Islam e Capitalismo hanno affrontato il problema. Solo che il risultato é discorde perché mentre per il cattolicesimo é stato rilevata la compatibilità fra l'esercizio della fede e il capitale (non a caso vengono citate le prime istituzioni bancarie cattoliche nate da spirito solidaristico), per quanto riguarda l'Islam il responso é, almeno per quanto riguarda per la Robinson, negativo.
Di questo sono date diverse spiegazioni, sia di carattere storico che filosofico.
Storicamente osserviamo che la Cina ex maoista (ma anche legata alle dottrine di Lao tze ed al Taoismo) e l'India Buddista ed Induista hanno avuto meno difficoltà ad adottare lo spirito di intrapresa e la cultura occidentale del management sopravanzando, negli ultimi anni, i ritmi di sviluppo delle economie occidentali al contrario del Pakistan e Bangla Desh a maggioranza mussulmana.
Dal punto di vista filosofico e culturale l'idea della sfida dell'uomo, espressa in occidente attraverso figure quali Adamo e Prometeo, non ha trovato in oriente corrispondenti modelli titanici. Alla sfida del mondo occidentale, osservano Jaspers e Heidegger, l'oriente contrappone l'abbandono. L'inquietante uomo che"si aderge"di cui Sofocle parla in Antigone non trova corrispondenza nella cultura che non prevede alcuna volontà ordinatrice del caos da cui separare il proprio ruolo ma prevede l'abbandono in esso come parte integrante di un mondo complesso.
La cultura dell'impresa, della sfida al mondo, sia esso della competizione e del mercato, alla ricerca di differenziali distintivi, si muove in contrapposizione con l'islamismo o, nella migliore delle ipotesi, fatica a trovare compromessi.
Quali le prospettive e gli strumenti di cui l'occidente manageriale e imprenditoriale dispone per affrontare il problema?
Anche nel nostro paese la questione meridionale a la più o meno fondata specificità dello sviluppo del nord e sotto sviluppo del sud ha imposto cambiamenti di rotta nelle politiche di promozione territoriale. Alla strategia della programmazione e dei poli di sviluppo che ha avuto in Pasquale Saraceno uno dei più illustri sostenitori, ha fatto seguito la teoria degli interventi a pioggia e della fertilizzazione del territorio anche sulla base degli studi di Franco Momigliano sui rapporti fra politica industriale e teoria dell'impresa, nonché della scoperta della Piccola e Media impresa. Con i poli di sviluppo ci si é concentrati su interventi puntuali prevalentemente nel campo dell'industria di base nell'ipotesi che sul territorio circostante sarebbe stato indotto naturalmente uno sviluppo delle imprese medio piccole. Nella maggior parte dei casi, però, sono state create delle cattedrali nel deserto e l'industrializzazione concentrata su pochi complessi non ha prodotto lo sperato sviluppo. Con i finanziamenti a pioggia, magari accoppiati a facilitazioni fiscali, si é creduto nella efficacia del ragionamento: creiamo le condizioni favorevoli per l'impresa e vediamo cosa ne nasce. Questo ha avuto un qualche effetto ma ha rappresentato anche un'occasione di malgoverno, di dispersione di risorse e di incremento della criminalità economica e non solo.
Le più recenti esperienze, legate alla scuola neo-istituzionalista hanno prodotto il metodo dei contratti d'area e dei patti territoriali nei quale gli stake holder territoriali, ovvero coloro che sono interessati allo sviluppo del territorio quali Enti locali, Camere di Commercio, Associazioni Imprenditoriali e Sindacati,Istituti di Credito Scuole e Università, prendono impegni reciproci, finanziari e non, con l'obiettivo di valorizzare da un punto di vista imprenditoriale il territorio di riferimento.
I progetti di sviluppo della imprenditorialità condotti dalla Facoltà di Economia di Forli' hanno ulteriormente perfezionato il modello adattandolo ad un contesto in transizione e muntietnico quale quello di Slovenia, Bosnia, Serbia ed Albania. Essi sono caratterizzati essenzialmente da micro interventi basati essenzialmente su tre fasi:
· Formazione all'impresa e selezione in loco dei candidati allo sviluppo di un'impresa.
· Stage in Italia presso P.M.I. del settore di riferimento.
· Attivazione di interventi di job creation e commesse ai neo-imprenditori.
Con questo approccio dagli interventi in push (a spinta) nei quali si fornivano al neo imprenditore i finanziamenti necessari per avviare un'impresa, si é passati ad un'azione in pull (a tiro) nel quale é la prima commessa di lavoro a dare l'occasione per organizzare una nuova impresa e conseguentemente per costruire qualche cosa di duraturo nel campo dell'organizzazione delle attività e delle imprese. Si é anche assunto come strumento più efficace di acculturamento all'impresa quello del lavoro in azienda come occasione di creazione di valide relazioni interpersonali che possono giocare un ruolo concreto nel superamento delle barriere culturali al fare impresa.
Si può anche dire che l'attuale rivoluzione copernicana nel campo della strategia con cui affrontare l'immigrazione,una parte significativa della quale é di fede islamica, sia quella di passare da una politica di salvaguardia delle diversità a quella dell'integrazione senza la quale il senso della sfida per lo sviluppo non solo non può essere vinta dai paesi in transizione, ma nemmeno concepita.
Massimo Bianchi